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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Sunday, July 08, 2012

 

FUORI DALL'IMBUTO

C'era una volta il consumatore... E di certo c'è ancora, da qualche parte.
Quello che cambia, però, sono i modi di afferrarlo, di convincerlo, di tenerlo ancorato a marchi e prodotti, mediali e materiali.
Di fronte a tanti cambiamenti radicali, urge una riflessione seria sull'esperienza di acquisto. Fino al totale ripensamento diu quel circolo che porta dalla cattura dell'attenzione alla fedeltà del brand.
Un lavoro difficile, ma qualcuno deve pur farlo.

LINK 11 - Maggio 2012

La parola chiave che domina da alcuni anni convegni, workshop e letturatura specializzata in marketing e comunicazione è multicanalità. Per multicanalità si intende l'uso integrato e strategico di molteplici canali e vie di comunicazione per far entrare in relazione le imprese con i propri clienti. Un fenomeno che sta diventando sempre più rilevante sul piano pratico anche in Italia, se si considera che i cosiddetti “consumatori multicanale”, ovvero coloro che utilizzano più risorse - on line e offline - per i propri acquisti, sono il 47% della popolazione sopra i 14 anni, cioè circa 24,6 milioni di individui.
E' un dato di fatto che internet, e in generale la presenza massiva dell'information technology nelle nostre vite, abbiano ribaltato il rapporto che coltiviamo con i brand. 
Tutti noi ormai siamo promiscui nelle relazioni con marchi e prodotti: prima di procedere ad un acquisto, entriamo in connessione con un’infinità di brand – tramite anche nuovi canali mediatici che sfuggono al controllo, o anche solo alla conoscenza, del produttore e del rivenditore – e operiamo delle continue valutazioni, ampliando spesso la gamma delle opzioni prima di restringerla.
Dopo l’avvenuto acquisto, può capitare di rimanere fortemente coinvolti nell'esperienza di consumo e ritrovarci quindi ad elogiare o criticare pubblicamente i prodotti che abbiamo acquistato e, magari involontariamente, collaborando allo sviluppo dei brand, oltre a metterne in discussione e a influenzarne il significato.
Nei convegni di settore si continua a dire (fino alla noia) che oggi il consumatore è cambiato profondamente. Ecco, secondo me non è così. Coloro-che-chiamano-i-consumatori (Cioè noi. Persone. Il cambiamento sta anche nell'uso del vocabolario) sostanzialmente sono rimasti gli stessi: alla fine vogliono ancora una chiara promessa di marca e delle offerte effettivamente apprezzabili. Ciò che invece è cambiato sono i cosiddetti brand touchpoints, i punti di contatto – sia in numero che in natura – con cui poter interagire con la marca e il momento in cui questi esercitano la propria influenza sulle nostre scelte.
Insomma, è lo scenario ad essere davvero mutato.
Se proviamo però a osservare le aziende, notiamo che i loro comportamenti e azioni sono sempre le stesse.
Il marketing stanzia un budget che per l'80% è destinato alla campagna di comunicazione classica, e il centro media fa una pianificazione sulla base dei mezzi disponibili. Esattamente come venti-trent'anni fa. C'è qualcosa che non quadra.
L'impressione è che la gran parte delle aziende continui ad agire pigramente sempre attraverso le stesse modalità: ad esempio, quello di ricorrere alla celebre “schema a imbuto” per analizzare il comportamento d'acquisto del consumatore e, di conseguenza, stanziare i propri budget di marketing.
Secondo tale modello, più volte citato nei vecchi manuali di marketing management, i consumatori partono all’estremità superiore di un immaginario imbuto con in mente un gran numero di brand che, con il passare del tempo, selezionano progressivamente fino ad arrivare alla scelta finale.
Sulla base di tale sistema, le aziende adottano da decenni un marketing di tipo push sui media a pagamento in determinati punti dell’imbuto per creare brand awareness, stimolare la riflessione e indurre l’acquisto.
Ma tale metafora non riesce più a cogliere l'evoluzione e la trasformazione in corso.
Forse la soluzione è quella di tornare a concentrarsi sul brand management, ad esempio osservando ed analizzando da vicino come sono realmente mutate le decisioni d'acquisto delle persone.
David Court, a capo di un team di analisti e ricercatori della società di consulenza McKinsey hanno pubblicato sul McKinsey Quarterly (2) una visione più articolata sul modo in cui le persone entrano i contatto con i brand, ricavandone un nuovo “percorso decisionale d'acquisto”. Il modello deriva da uno studio sulle decisioni d’acquisto di quasi 20.000 persone in cinque settori – automobili, cura della pelle, assicurazioni, elettronica di consumo e telefonia mobile – e in tre continenti. La ricerca ha rivelato che, lungi dal restringere sistematicamente le proprie opzioni, oggi le persone seguono un percorso molto più iterativo e meno riduttivo, che attraversa quattro fasi: considerazione (consider), valutazione (evaluate), acquisto (buy) e gradimento (enjoy), referenza positiva (advocate)-attaccamento (bond).
Il percorso inizia con le opzioni che ciascuno di noi ha in mente: prodotti o brand considerati e “assemblati” durante l’esposizione alla pubblicità, visti a casa di un amico o attraverso altri stimoli.
Nel modello tradizionale dell’imbuto, la fase di considerazione contiene il massimo numero di brand; oggi però tutti noi siamo assaliti dai messaggi diffusi dai media e quindi, messi di fronte a un’enorme quantità di alternative, tendiamo a ridurre il numero dei prodotti da prendere all’inizio in considerazione.
Vi è poi una nuova fase denominata di valutazione in cui siamo noi che determiniamo la veridicità delle informazioni, chiedendo indicazioni a colleghi, rivenditori, ma soprattutto andando su internet alla ricerca di info: sui motori di ricerca, sugli aggregatori di offerte, sui blog tematici, intercettando conversazioni e recensioni sui social network e visitando il sito del brand che ci interessa e quello dei competitors.
In genere, in questa fase (chiamata anche di info-commerce), aggiungiamo nuovi brand alle opzioni iniziali e ne escludiamo altri man mano che acquisiamo nuove informazioni, modificando i criteri di selezione. Il contatto diretto con i fornitori e con altre fonti di informazioni, infatti, è destinato a influenzare le successive scelte di consumo più dei tentativi di persuasione effettuati dagli operatori di marketing.
Dopodiché arriva la fase di acquisto, ovvero quella della decisione definitiva che, indipendentemente se avviene in un punto vendita reale o online, tendiamo a rinviare il più possibile, e spesso riusciamo a farci dissuadere anche qui. Dunque il punto di acquisto – che sfrutta variabili fondamentali come la collocazione del prodotto, il packaging, la disponibilità, il pricing e le interazioni commerciali – rappresenta un punto di contatto più decisivo che mai.
Se il percorso ad imbuto si concludeva con l'acquisto, il nuovo modello prosegue include anche nuove fasi come quelle del Gradimento, Referenza Positiva e Attaccamento.
Dopo l’acquisto infatti può venire a crearsi un nuovo legame con il brand. Se siamo sono soddisfatti di un acquisto, magari di una certa rilevanza economica, tendiamo a parlarne positivamente agli altri, stimolandone le valutazioni e, magari involontariamente, rafforzando il potenziale del brand relativo. Se invece siamo delusi dall'esperienza di acquisto/consumo possiamo abbandonarlo o, peggio, parlarne male in giro. Ma se il legame diventa abbastanza forte, si entra in un circuito di gradimento-referenza positiva-acquisto che permette di saltare, per un proprio riacquisto o per “influenzare” l'acquisto di altri nostri conoscenti, le fasi di considerazione e valutazione: questo è un punto di contatto che manca totalmente nel modello tradizionale dell’imbuto.

LE CONSEGUENZE DEL MARKETING

Le implicazioni per il marketing di questo percorso, che ognuno di noi percorre più volte alla settimana, sono profonde. La prima riguarda l'allocazione degli investimenti sui diversi media: prima di focalizzarsi su come allocare la spesa tra i diversi media – televisione, radio, stampa, digital, etc.. – gli addetti al marketing dovrebbero valutare le diverse fasi del percorso d'acquisto.
Gli analisti di McKinsey analizzando le varie classi di prodotto oggetto della ricerca, hanno evidenziato più di un disallineamento tra quasi tutte le allocazioni di marketing e i punti di contatto in cui i consumatori vengono più influenzati. Mediamente un 70-80% della budget di marketing va in pubblicità e in promozioni sul punto vendita, che impattano sui consumatori nelle fasi di considerazione e di acquisto, dove il set di opzioni è estremamente malleabile. Ma, come abbiamo visto, le decisioni e le scelte sono influenzate, spesso in misura maggiore, nelle fasi di valutazione e gradimento-referenza positiva-attaccamento.
In molte categorie merceologiche, il fattore che più stimola la decisione di acquistare è il passaparola positivo di amici e conoscenti. Eppure, molti addetti al marketing si concentrano ancora sulla spesa da destinare ai media (in primis la pubblicità) anziché sulla promozione del passaparola.
Gli spot più persuasivi, le comunicazioni più sofisticate e i video più virali potrebbero accrescere l’attrattiva di un brand, ma se il prodotto riceve valutazioni negative – o peggio, non viene neppure preso in considerazione nelle discussioni online – è improbabile che possa sopravvivere al processo di selezione operato da quello che-una-volta-veniva-chiamato-consumatore.
I budget di marketing vengono costruiti per soddisfare i bisogni di una strategia ormai superata. Nella metafora dell’imbuto, la comunicazione è monodirezionale e tutte le interazioni con i consumatori hanno dei costi variabili per i media che superano quasi sempre i costi fissi dell’attività creativa. Inoltre il management si concentra sulla quota del budget di marketing dedicata ai media a pagamento: oggi gli operatori di marketing dovrebbero anche prendere in considerazione, in modo integrato, anche i media proprietari (ossia i canali controllati da un brand, come i siti web) e i media guadagnati (canali creati dai clienti, come le comunità di fan di un determinato brand o i social network). Infine le aziende devono ricordarsi di destinare una quota sempre maggiore del budget alla spesa “non direttamente produttiva”, ovvero le persone e le tecnologie che occorrono per creare e gestire un contenuto destinato a una pluralità di canali e per monitorarli o parteciparvi (ad esempio, il community manager che, visto il ruolo strategico che oggi ricopre, non può essere affidato in outsourcing, come tipicamente accade).

NUOVE STRATEGIE

L’adozione di una strategia basata sul percorso decisionale del consumatore avviene sostanzialmente in tre fasi. Identificazione del percorso decisionale del cliente della classe di prodotto, individuazione dei touch points prioritari e infine, allocazione delle risorse, ridefinendo processi e ruoli.
L'indagine McKinsey ha anche rivelato alcuni highlights e comportamenti in cui tutti noi possiamo rivederci. Nella fase di valutazione, ad esempio, i consumatori non consultavano i motori di ricerca; andavano direttamente sui siti di distribuzione al dettaglio che, grazie alle ricche informazioni comparative sui prodotti, valutazioni di consumatori ed esperti e supporti visuali, stanno diventando gli influenzatori più importanti. Meno di un acquirente potenziale su dieci visitava i siti dei produttori, dove la maggior parte delle aziende concentrano ancora il grosso della loro spesa digitale.
 I banner pubblicitari, che oggi vengono considerati importanti, venivano cliccati solo se comportavano uno sconto e poi solo quando il consumatore era ormai prossimo alla fase di acquisto. E tutto questo accadeva al di là del fatto se l'acquisto venisse fatto in un grande magazzino o su un sito internet.
Infine persone che cercavano informazioni sui brand spesso vivevano un’esperienza altamente frammentata: nomi dei modelli che non corrispondevano alle foto o a ciò che veniva venduto negli store online, descrizioni che cambiavano da un sito all'altro, recensioni di prodotti fuori commercio, link inaccessibili. Molti potenziali acquirenti che avevano preso in ottima considerazione alcuni brand, li avevano abbandonati nella fase di valutazione o di acquisto, confusi e frustrati dalle incongruenze informative. Insomma, questa costosa frammentazione del percorso decisionale ha messo in chiaro che le nuova strategie di marketing debbano fornire un’esperienza integrata dalla fase di considerazione alla fase di acquisto e anche oltre. La ricerca ha messo in luce anche le attive relazioni che molti persone intrattengono con i brand dopo l’acquisto: in molti commentavano sui social network gli acquisti effettuati e mettevano delle recensioni online, specie quando venivano stimolati dalle e-mail post-acquisto dei rivenditori al dettaglio o (molto più raro) dai produttori.
Per concludere, la realtà è piuttosto complessa, variegata e, sia detto fuori di retorica, in continuo cambiamento. Non vogliamo dire che il vecchio modello, quello basato sulla comunicazione unidirezionale, della grosse campagne tv o stampa, sia da buttare. Anzi. Magari per molti marchi la brand awareness rimane ancora il modo migliore per accrescere il proprio value e business perché, ad esempio, non tutte i prodotti o le classi merceologiche si prestano ad essere oggetto di conversazioni online. La parte emotiva e non razionale rimane sempre rilevante su molti mercati, anche in tempo di crisi. Il messaggio che dovrebbe passare è che oggi non valgono più delle regole standard per tutti e quindi, proprio per questo, il marketing torna ad avere un ruolo centrale, originale e non codificato, basato su analisi e ricerche profonde. Una funzione che richiede anche una profonda revisione interna, in termini di ruoli, funzioni e come figure editoriali e responsabili della supply chain dei contenuti che sappiano gestire al meglio questo nuovo scenario.
Quando anni fa Renzo Rosso di Diesel diceva che “i marchi dovranno sempre più essere gestiti come dei giornali”, non la sparava così grossa.
  1. Dato dall'Osservatorio Multicanalità 2011 condotto da Nielsen, Connexia e la School of Management del Politecnico di Milano, elaborati sulla base di 7000 questionari compilati da persone appartenenti a 3000 famiglie.
  2. Ricerca ripresa anche dall'Harvard Business Review del dicembre 2010.“Branding in the Digital Age: You’re Spending Your Money in All the Wrong Places” di David C Edelman.

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