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Wednesday, July 22, 2009

 
La fiera dell'est

Cosi nasce la prima grande offensiva asiatica per spodestare i marchi più famosi del mondo.

Il Foglio - 22 luglio 2009

Ancora un colpo ben assestato per accelerare il declino dell’impero occidentale, verrebbe da dire. Questa volta la vittima non è né la finanza né tanto meno la politica, bensì il mondo del marketing e dei brand, il dorato carrozzone che, attraverso il consumo, promette sogni di plastica a milioni di famiglie nell’intero globo. Quelli che un tempo per le multinazionali americane erano considerati paesi emergenti da conquistare (Cina, India, paesi della America Latina), opportunità da sfruttare e consumatori da ammaliare, oggi si sono trasformate in serie minacce.

La notizia campeggia sulla prima pagina dell’inserto del Financial Times di ieri. Il pezzo , firmato da Jenny Wiggins, in pratica sostiene che nel giro di pochi anni i principali brand globali non saranno più i soliti noti - Coca.Cola, Starbucks e McDonalds - bensì marchi di food and drink cinesi , indiani e colombiani. La rivelazione emerge dai risultati di una ricerca commissionata da Financial Times ai consulenti della Wollf Olins. Questo cambiamento di scenario si basa semplicemente su un paradigma che è mutato: se prima i brand globali erano quelli che conquistavano gli Stati Uniti, oggi sono i marchi che riescono a diventare i numeri uno in Asia.

E quali sarebbero questi brand? Per lo più sono sconosciuti da noi: la catena di caffè colombiana Valdez cafè, Almarai, colosso alimentare saudita con sede a Riyadh, la raffinata catena libanese di negozi di cioccolato Patchi, il produttore di vino cinese Chang Yu e United Spirits il più grande gruppo di bevande alcoliche che detiene tra i suoi prodotti anche lo scotch whisky Whyte & Mackay. Aziende che macinano miliardi di fatturato nell’altra parte del globo.

La ricerca effettuata dalla Wolf Olins è più che attendibile, la conferma è data dalle notizie di shopping forsennato che le corporations nordamericane, annusata l’aria, stanno facendo in Far East: la Pepsi Co. ha recentemente acquistato per quasi un miliardo e mezzo di dollari la Lebedyansky, il più grande gruppo di succo di frutta in Russia e sta creando una strategica joint venture con la sopracitata Almarai per il mercato asiatico e africano, mentre la Unilever (che ha in portafoglio Algida) ha incorporato la Inmarko, il colosso cinese dei gelati. Meno fortuna ha avuto la Cola-Cola il cui tentato acquisto per oltre due miliardi di dollari della cinese Huiyuan, il brand più importante di succhi di frutta in Cina, è stato bloccato dall’anti trust di Pechino.

Ma la domanda che in molti si fanno è la seguente: dove hanno sbagliato i brand occidentali? Perché non sono riusciti a conquistare con il proprio modello di business ben oliato questi mercati emergenti? Le risposte sono molte. Prendiamo l’esempio Cina: l’errore fatto da molte multinazionali del food & drink è quello di aver considerato una sola Cina, quella delle metropoli della cosiddetta zona 1 (Pechino, Shanghai, Hong Kong) già in parte abituate al modello occidentale, snobbando totalmente le “altre” Cina, quella delle migliaia di piccoli villaggi rurali, che hanno linguaggio, cultura, clima, dieta alimentare, reddito e storia totalmente diverse e che fanno la differenza in termini di revenue e notorietà. La stragrande maggioranza della popolazione cinese non vuole imitare o scimmiottare lo stile di vita degli occidentali. Vogliono essere moderni e internazionali, ma mantenendo la loro forte identità orientale.

Sempre per rimanere in “casa Cina” , c’è ancora un ostacolo di cui spesso non viene tenuto conto, ovvero la traduzione del proprio brand o prodotto in ideogrammi. Se il marchio esprime un valore o ha un senso compiuto, la traduzione risulta piuttosto semplice. Ma se, come spesso capita, il nome è di fantasia, allora il gioco si fa duro. Coca-Cola è un nome privo di significato:, così dopo la guerra il gruppo di Atlanta cercò una traduzione che ne riproducesse il suono: il significato che venne fuori era una cosa tipo “un cavallo femmina legato con la cera”. Puro nonsense. Solo più tardi i responsabili marketing riuscirono a trasformare il proprio marchio con una traduzione più appropriata, che abbinasse al suono anche un significato coerente al prodotto. Così venne scelto la traduzione “qualcosa che fa resuscitare la bocca”.

Pare però che questa volta le vendite non risusciteranno.

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