EmmeBi Attached

Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Thursday, November 30, 2006

 
Il libro verde del consumismo secondo i neogreen

Il Foglio - 29 Novembre 2006

Sebbene qui in Italia sia passato piuttosto inosservato, nel resto del mondo il rapporto Stern sull’emergenza dei cambiamenti climatici ha avuto un forte impatto sulla stampa e sull’opinione pubblica. Il rapporto, commissionato dal governo inglese e presentato da Sir Nicholas Stern, in sintesi ci dice che se il problema ambientale viene affrontato subito, il costo del cambiamento climatico impatterà solo per l’1 per cento sul pil globale entro il 2050; al contrario, tale costo avrà un effetto tra il 5 e il 20 per cento del pil. Ovviamente si parla di azioni in larghissima scala che coinvolgono tutti i paesi industrializzati come la riduzione di carbone attraverso tassazioni e lo sviluppo di energie alternative; ma il messaggio che passa è “anche noi, nel vita di tutti i giorni, possiamo dare il nostro contributo contro il riscaldamento del pianeta”. Ed è con questa consapevolezza che è nata e si è sviluppata la comunità dei neogreen. I neogreen sono un fenomeno sociale nato spontaneamente alcuni anni fa in California: a differenza dei vecchi ecologisti, i neo-green hanno una matrice meno ideologica e non rifiutano i sistemi economici consumistici ma, al contrario, sono più pragmatici e utilizzano proprio i consumi - ecologicamente corretti e con bassi sprechi energetici – e le tecnologie per tentare di trasformare il mondo in un luogo migliore.

Vestono abiti di cotone e lana provenienti da coltivazioni e allevamenti biologici, guidano auto ibride - metà benzina e metà elettriche -, vivono in case progettate con i criteri della bioedilizia (utilizzando materiali abbondanti e riciclabili quali argilla, calce e pietra), hanno pannelli solari per riscaldare l’acqua e fotovoltaici per produrre l’elettricità e sguazzano nelle “biopiscine”dei loro giardini con l’acqua filtrata dalle piante.

Negli Stati Uniti Al Gore è il portavoce principale di questo nuovo tipo di ambientalismo: il suo film-documentario “An inconvenient truth” (“Una verità scomoda” sugli schermi italiani dal prossimo gennaio) sebbene non sia stato un gran successo al botteghino, ha avuto una grande visibilità sui media a tal punto da diventare il manifesto del risveglio ecologico e del rinnovato interesse verso l’emergenza del cambiamento climatico.
Wired, il mensile americano di tecnologia e tempi moderni, sempre molto attento alle tematiche ecologiche, ha dedicato tempo fa la copertina al fenomeno dei neo-green, cercando di mettere in luce le motivazioni dei loro comportamenti e le palesi contraddizioni.
L’articolo di Wired sottolinea come tali condotte non siano frutto di una reale consapevolezza ecologica, bensì di una sorta di esibizionismo, una dichiarazione di appartenenza spesso fine a se stessa. Da molte ricerche condotte dagli stessi produttori delle automobili ibride come la Prius o la Honda Civic ibrida, emerge che la motivazione d’acquisto primaria è quella di avere un simbolo “politicamente corretto” da poter mostrare agli amici e ai vicini (la tecnologia ibrida è ancora carissima), piuttosto che la possibilità di ridurre le emissioni dannose: insomma niente poi di così diverso dal tipico esibizionismo automobilistico.
I vestiti cosiddetti biologici, prodotti con fibre coltivate senza pesticidi o erbicidi, hanno un grande successo di vendita negli Stati Uniti non solo per il loro basso impatto ambientale e la produzione “sostenibile”, ma anche perché gli acquirenti sono disposti a pagare di più (in misura del 30-40%) per la soddisfazione, tipicamente “consumeristica”, di conoscere la fonte da cui è stata prodotta e di poterla così esibire. C’è poi una componente di moda che negli Stati Uniti aiuta: non stiamo infatti parlando di neo-hippie straccioni, ma di giovani e giovani adulti che tengono molto al loro look. Se i vestiti “organici” (anche Levi’s e Whole Food hanno creato una linea di abiti realizzata con tessuti biologici) non avessero linee, tagli e disegni cool, sarebbero tutti sugli scaffali dei “negozi verdi”.

Ma la critica di Wired non si ferma solo all’analisi di questi aspetti di marketing, ma prende in considerazione anche gli effettivi benefici che i consumi politicamente corretti dei neo-green hanno sull’ambiente. Assai scarso invero. Prendiamo il cibo biologico. Studi incrociati rivelano che gli alimenti derivanti da coltivazioni bio hanno senso solo se consumati entro 12 miglia – meno di 20 km – dal luogo di produzione, altrimenti l’inquinamento prodotto dai mezzi di trasporto rischia di annullare completamente il beneficio ambientale realizzato dalla coltura. Se si guardano poi le percentuali relative alle fonti alternative, ci si rende conto che il fenomeno è ancora irrisorio: nell’ultimo anno negli Stati Uniti solo il 6,1% dell’energia consumata è stata prodotta da fonti rinnovabili. La metà di questa fornita dall’energia idroelettrica, che gli ambientalisti non ritengono proprio “alternativa”. Il rimanente 3,4% deriva dall’energia geotermica, eolica, solare (solo lo 0,1%) e delle biomasse.
E’ ovvio che l’emergenza c’è e richiede un intervento massiccio e definitivo, ma questo può avvenire solo attraverso una politica globale e “imposta” dai governi dei paesi industrializzati e non certo da una sparuta nicchia di ecologisti consumisti.

Monday, November 20, 2006

 
Quando i duri iniziano a giocare

Style Magazine - Novembre 2006


Lo scrittore Steven Johnson, nel suo libro “Tutto quello che fa male ti fa bene”, si è chiesto quale sarebbe stata la reazione di genitori e insegnanti se i libri si fossero affermati dopo l’avvento dei videogiochi. “Secondo Johnson” ci racconta Andrea Persigati, presidente AESVI (Associazione degli Editori Software Videoludici) e Direttore Generale di Nintendo Italia “questi avrebbero sostenuto che il libro crea isolamento e costringe i giovani ad una forma di intrattenimento individualistica, senza possibilità di interazione con i propri pari, mentre il videogioco stimola la creazione di relazioni sociali tra gli stessi, oppure che il libro attiva solo una parte del cervello, mentre i videogiochi coinvolgono tutte le funzioni sensoriali e motorie dell’individuo”.
I pregiudizi e i luoghi comuni, si sa, sono duri a morire.
Il videogioco peraltro non è più solo lo “spara-spara” o l’estenuante gara di rally per adolescenti brufolosi, ma la più interessante e popolare forma di home entertainment per tutte le età.
Quasi un italiano su due gioca ai videogiochi: i videogiocatori sono circa 24 milioni e il 57% ha tra i 18 e i 44 anni. Il profilo socioeconomico è decisamente più alto di quello che si aspetta: il 24% è un libero professionista o imprenditore, è un forte lettore di quotidiani e libri, preferisce guardare la tv satellitare ed è un assiduo consumatore di musica e home video. Le aziende più attente alle nuove tendenze (Coca-Cola e Adidas, ma anche Fiat) hanno capito che questo target è molto interessante e stanno utilizzando il videogame come un media per comunicare i propri brand e prodotti. “Ora che le console di ultima generazione hanno incontrato l’alta definizione audio-video, si sono trasformate in una via di mezzo tra il cinema interattivo e il broadcasting televisivo” dice Corrado Buonanno, presidente di Sony Computer Entertainment.
L’obiettivo ora è quello di trasformare il videogioco da mera forma di intrattenimento a strumento utile per il sistema sociale, educativo e culturale. La Sony ha recentemente stretto un accordo con biologi americani per l’utilizzo della PS3 nella ricerca medica al fine di combattere l’Alzheimer; l’ONU ha commissionato un nuovo videogame che simula le missioni del World Food Program in Nigeria e in Afghanistan per far conoscere le proprie attività ad un pubblico più vasto.

Adesso il videogame è diventato anche un mezzo di aggregazione e di comunicazione “Con le consolle di terza generazione” ci spiega Maurizio Zazzaro, country manager E&D Division Microsoft Italia “è possibile giocare con altri utenti connessi in quel momento, come pure scambiarsi aggiornamenti di giochi, ma anche immagini, video e musica”.
Il videogame si è quindi trasformato in “altro”, in una nuova esperienza digitale. Andrebbe trovato un altro nome.
“Videoexp” può andar bene?

Tuesday, November 14, 2006

 

La strategia espansionista di Starbucks, il "terzo luogo" che viaggia verso l'Italia

Il Foglio - Martedì 14 novembre


Ci sono notizie che sembrano diramate con il preciso scopo di nascondere la verità. Ce n’è una su Starbucks, la catena di bar famosa per i suoi caffè e “frappuccini” che pare stia per sbarcare in Italia, ad esempio. Una notizia che in questi giorni ha occupato i giornali di mezzo globo: l’associazione umanitaria Oxfam ha accusato la potente corporation americana di impedire all'Etiopia di far rispettare il marchio di due tipi di semi di caffè (che sono poi le qualità di caffè più popolari, Sidamo e Harar) negando così ai coltivatori africani un potenziale introito di oltre 74 milioni di euro. Ovviamente Starbucks smentisce di aver ispirato il tentativo di bloccare l'iniziativa effettuata dalla National Coffee Association Usa (di cui Starbucks è uno dei più potenti membri) presso l'Ufficio dei brevetti, ma ha offerto alla stampa l’occasione per il dibattito con i soliti ruoli della corporation cattiva e della Ong buona e giusta.
Insomma, si parla di caffè, come se questo fosse ancora il principale obiettivo della catena globale di Seattle. In realtà oggi per Starbucks - almeno negli Stati Uniti - il caffè non è il vero punto.

Il business prospettico per la multinazionale di Seattle nei prossimi anni è quello di creare un “gusto” che vada oltre il caffè: l’obiettivo è la creazione di un’estetica, uno stile e una serie di suggerimenti culturali veicolati e consigliati da Starbucks ai suoi fedeli consumatori ormai assuefatti di caffè. La scorsa settimana sul New York Times c’era un articolo di Susan Dominus intitolato “The Starbucks Aesthetic” in cui si poneva l’attenzione su questo nuovo aspetto. Da alcuni anni nelle oltre 12.000 caffetterie sparse negli USA sono venduti - con grandissimo successo - libri, dischi e dvd, alcune volte in anteprima rispetto ai normali negozi, altre direttamente in esclusiva: è successo per il greatest hits di Bob Dylan, per il recente disco di Herbie Hancock o per l’ultimo best seller dello scrittore Mitch Albom “For One More Day”.
“La capillarità dei nostri negozi, la fiducia nel marchio e il profilo dei nostri consumatori ci pongono in una posizione unica per creare una nuova piattaforma dell’entertainment” dice fiero Howard Schultz, presidente di Starbucks. Molti americani considerano lo Starbucks sotto casa come “ the third place” ovvero il luogo alternativo alla casa e all’ufficio dove possono trovare il loro caffè preferito, incontrare amici, leggere giornali, navigare su internet con la rete wi-fi gratuita e acquistare libri, dischi e film. In Starbucks credono così tanto a questa estensione di offerta che hanno costituito due divisioni ad hoc (a Seattle e a Los Angeles) che si occupano di selezionare – e, in futuro, direttamente di produrre – i prodotti culturali da proporre al proprio cliente.
Non è un caso che si parli di cliente al singolare. Nonostante Starbucks sia un’azienda che si rivolge ad un pubblico di massa, per questo nuovo progetto ha voluto concentrarsi su un target ben preciso, quello dei propri fedelissimi: trenta-quarantenni, con un reddito medio di 90000$, educati, “a little hiipyish”, che costruiscono la propria identità sulla base dei propri gusti culturali e che trovano in Starbucks un “amico fidato” da ascoltare.

Il caffè, quindi, non è il punto. Negli Stati Uniti infatti i teenager hanno sostituito al caffè gli energy drink: dall’ultimo sondaggio della Simmons Reasearch sono oltre 7 milioni i consumatori assidui. Solo nell’ultimo anno sono stati lanciati sul mercato cinquecento nuovi prodotti che assicurano energia e vitalità ai giovanissimi grazie ad elevate dosi di caffeina e taurina. Ormai tutte le grosse corporations alimentari, da Coca-Cola a Anheuser-Bush, si sono scaraventate su questo mercato in fortissima crescita, ma anche oggetto di numerose critiche da parte di medici e salutisti. Il caffè tra i giovani viene vissuto come una bevanda statica, “da nonni” e con un bassissimo appeal. E anche Starbucks sta subendo questo calo d’immagine tra le nuove generazioni.
Questo è lo scenario che si prospetta negli Stati Uniti. Altrove la multinazionale di Seattle sta conducendo una politica espansionistica senza precedenti che porterà il “frappuccino” in Russia, Cina, India e Brasile e, come si diceva, anche in Italia.
E forse si tornerà a parlare di caffè.

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