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Gli allegati di EmmeBi Blog: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.

Friday, March 03, 2006

 
ESPORTARE LA MERCE DELLA DEMOCRAZIA IN MEDIO ORIENTE

L'anima del commercio nel mondo musulmano deve rispettare regole precise per essere pure. Il catalogo è questo.


Il Foglio - 3 Marzo 2006

Le cronache di queste ultime settimane ci hanno presentato i paesi musulmani sotto una nuova veste. A seguito dei boicottaggi dei prodotti danesi da parte della comunità islamica sono emerse una serie di rimostranze - ancor più vili dei boicottaggi stessi, se possibile - da parte di importanti multinazionali come Nestlè e Ferrero che, conducendo ottimi affari in quei paesi, si sono precipitate a dichiarare la provenienza “buona e innocente” dei propri prodotti – “Noi non siamo danesi, quelle cose brutte lì mica le facciamo”.
I paesi musulmani si sono quindi rivelati, ai nostri occhi, importanti e strategici mercati di consumo.
L’islam ha più di un miliardo e mezzo di fedeli in tutto il mondo, e un’alta percentuale di questi vive in quella parte di pianeta in forte via di sviluppo. I musulmani che vivono in paesi come Egitto, Malesia e Arabia Saudita hanno un alto potere d’acquisto e sono molto interessanti per quelle aziende costrette a lottare nei paesi occidentali con mercati maturi e consumi stabili. Nel libro di Jeffrey E . Garten, preside della Yale school of management, “The Big Ten: The Big Emerging Markets and How They Will Change Our Lives” tra i dieci mercati emergenti segnalati vi sono due nazioni musulmane (Turchia e Indonesia), e altre due dove vi è una consistente percentuale di fedeli a Maometto (India e Sud Africa). Per non parlare poi della diffusione del Corano nei paesi sviluppati europei e nel nord America: in Francia più di un decimo della popolazione aderisce all’islam, negli Stati Uniti si stima ci sia invece una comunità musulmana di circa otto milioni di persone.
A differenza di quanto si pensi, l’islam considera il business come un’attività socialmente utile: il profeta Maometto, del resto, apparteneva a un importante clan di mercanti, e trascorse buona parte della sua vita portando avanti l'attività della famiglia. Il sistema socio-economico islamico prevede precise linee guida e regole da seguire su questioni economiche quali le tassazioni, la distribuzione della ricchezza, il commercio e il consumo. La legge islamica (shari’ah) deriva dal Corano e dal sunnah, che traccia la linea di condotta applicata sia nella vita familiare e sociale sia nelle relazioni commerciali. Tutte ottime condizioni, queste appena citate, per condurre affari nei paesi levantini a prevalenza musulmana. Per questo, negli ultimi anni, stiamo assistendo ad una rapida crescita della finanza islamica: il grande gruppo bancario inglese Citibank ha aperto una nuova direzione nel Bahrain; Dow Jones ha da qualche anno costituito un nuovo indice di borsa (Dow Jones Islamic Market Index) rivolto agli investitori che seguono le linee guida dell’islam.
Insomma, la religione nei paesi musulmani gioca nella conduzione del business un ruolo decisivo di intraprendenza ed efficienza, sia sui processi e le scelte aziendali sia sulle decisioni di acquisto dei consumatori, specialmente per gli abitanti dei paesi mediorientali. Il rispetto delle leggi coraniche influenza fortemente gli atteggiamenti e i consumi dei devoti a Maometto, ed è quindi necessario che le aziende occidentali, decise a fare affari con questa comunità predispongano una strategia di marketing ad-hoc.
La comunicazione pubblicitaria, in particolar modo, può trasformarsi in un boomerang per l’azienda, qualora offenda la dignità della persona o, direttamente, le leggi del Corano.
Proviamo quindi a tracciare alcune linee guida da seguire per chi si vuole avventurare in questa complicata impresa.

Regola numero uno: dimenticatevi le pubblicità occidentali o, almeno, non pensate alle logiche che si celano dietro ai nostri spot, cartelloni o campagne stampa, ovverosia quella di “farsi notare”, cioè di catturare l’attenzione del potenziale consumatore. Per raggiungere questo scopo i nostri pubblicitari utilizzano copiosamente immagini provocatorie e frasi ad effetto, spesso al limite del buon gusto. La pubblicità nei paesi islamici invece non deve divertire, stimolare o sbalordire ma, soprattutto, informare in modo veritiero, diretto e gentile: in pratica, deve avere l’appeal di un annuncio immobiliare. Del resto, lo strumento pubblicitario è stato, ed è ancora, molto utilizzato per promuovere la religione islamica, perciò questo è lo stile di comunicazione. Anche l’uso di figure retoriche come il paradosso, l’iperbole o l’enfatizzazione, molto utilizzate nella comunicazione pubblicitaria a cui siamo abituati, nei paesi arabi rischia di essere interpretato come falsità o menzogna. A meno che non siano immagini palesi e ovvie, come può essere quella di un bambino che solleva un elefante dopo che ha mangiato dei biscotti energetici. Per non parlare poi dell’ironia: abbiamo quotidianamente davanti agli occhi gli effetti dello scarso senso dell’umorismo di alcune piazze arabe (anche su argomenti diversi dalla religione).
In compenso certa terminologia religiosa viene talvolta utilizzata per rassicurare i consumatori sull’integrità islamica dei prodotti oggetto della pubblicità: frasi come bismillah (“in nome di Dio”, frase usata dai musulmani prima di intraprendere un’azione) o Allahu akbar (“Allah è grande”, motto da noi tristemente noto) si possono tranquillamente trovare nei manifesti che pubblicizzano banche saudite o farmaci.

Perfino l’occidentale Ford nello spot di una propria auto sportiva, faceva recitare ai due protagonisti, entrambi vestiti con tradizionali abiti arabi, l’espressione Ma’ashallah (“sia fatta la volontà di Dio”) ogni qual volta uno dei due faceva notare all’altro le caratteristiche e le sorprendenti qualità della propria auto. E’ anche vero però che spesso il popolo arabo vede dei riferimenti religiosi offensivi, laddove non vi era neppure l’intenzione: esplicativo il caso della ABB (Asea Brown Boveri), multinazionale leader nelle tecnologie per l'energia e l'automazione, che non ha potuto mostrare il proprio logo in una cartellone pubblicitario all’interno dell’aeroporto del Bahrain, perché la linee incrociate bianche su sfondo rosso che si trovano dentro le lettere della sigla, ricordano la croce cristiana (come pure, peraltro, la bandiera danese).

Poi c’è la questione delle donne arabe. La pubblicità, si sa, riflette i valori e i cambiamenti della società e, secondo l’opinione di molti osservatori della comunità musulmana, negli ultimi anni la condizione della donna nei paesi del Golfo, in Marocco e in Iran, è migliorata. Poche settimane fa a Beirut è nato “Heya tv” (“Lei tv”) un nuovo canale televisivo dedicato al volto moderno delle donne arabe che vivono in Medio Oriente e Nord Africa. Trasmette lezione di cucina, soap opera sudamericane, ma anche dibattiti in cui si raccontano storie di donne che si sono distinte per modernità ed emancipazione. Inoltre, in paesi come Oman o Kuwait, le donne ricoprono posizioni di rilievo in campo istituzionale e aziendale; negli Emirati Arabi è più alta la percentuale di donne laureate rispetto agli uomini.
In pubblicità il processo di modernizzazione è più lento. Nei paesi del Golfo viene riproposta la figura stereotipata della donna, come era ad esempio da noi negli anni ‘70: quella che viene rappresentata negli spot è la bella e impossibile (la ballerina egiziana che, nell’immaginario arabo, corrisponde alla nostra Monica Bellucci o a Kate Moss), oppure la casalinga che vive in cucina e passa il tempo a pulire la casa o ad accudire la prole. Non esiste ancora un’immagine moderna e intraprendente della donna: negli spot degli istituti bancari, ad esempio, la donna viene mostrata sempre come la moglie di colui che porta i soldi a casa e al quale viene intestato il conto corrente, le cui rendite potranno essere usate dalla moglie per far fronte all’educazione dei figli. Nelle pubblicità delle auto, la donna musulmana ha invece il ruolo di testare la sicurezza e l’affidabilità della vettura e, quindi, partecipa alla decisione d’acquisto.

In occidente per cercare di differenziare un brand dall’altro, le aziende e le agenzie pubblicitarie puntano su qualità illusorie quali il prestigio o il sex appeal; difficile utilizzare queste modalità in paesi ancora molto conservatori come quelli a prevalenza musulmana. Un manifesto pubblicitario del profumo Cool Water della Davidoff, raffigurante una donna seminuda che emergeva da un lago, è stato preventivamente modificato dall’agenzia pubblicitaria per il mercato arabo: le spalle nude sono state coperte, inserendo con un fotomontaggio una gigantesca roccia, di modo tale che solo il volto femminile rimanesse visibile. Nonostante questa soluzione la pubblicità è stata bloccata in alcuni paesi arabi perchè il volto della donna risultava “troppo sexy e invitante”.

C’è da dire, inoltre, che i processi di decisione per l’acquisto, ad esempio, di un’automobile da parte di un musulmano, sono differenti da quelli di un occidentale cattolico o di un ebreo. Molti teorici moderati dell’islam parlano di “materialismo strumentale” e di “materialismo terminale”: con il primo termine ci si riferisce a quando gli oggetti sono valutati e valorizzati per la loro funzione specifica, mentre si parla di “materialismo terminale” quando un prodotto viene apprezzato solo come oggetto in sé stesso e il fine ultimo è quello di possederlo a tutti i costi. Ovviamente, nella visione e morale islamica, il materialismo strumentale è concesso, il terminale no: Maometto in realtà predicava la moderatezza negli affari - permettendo però ai propri fedeli di soddisfare i bisogni - e quindi descriveva l’islam come “la terza via”.

Uno dei punti centrali della religione musulmana è la sobrietà nei consumi e, sopratutto, il risparmio: questo argomento può essere uno delle chiavi vincenti per poter comunicare in modo efficace al consumatore islamico. Lo devono aver capito quelli della Pepsi-Cola quando se ne uscirono con una campagna stampa in cui si comunicava la possibilità per i consumatori di comprare la bevanda, nell’immediato termine del Ramadan, risparmiando anche sul prezzo. Quindi, rispetto delle tradizioni religiose e opportunità di risparmio per la comunità musulmana: strategia intelligente e vincente.
Nel seguire la strategia del risparmio Coca-Cola ottenne invece l’effetto opposto: per celebrare il suo primo anno di permanenza nel mercato iraniano, la multinazionale americana decise di commercializzare la propria bevanda con un forte sconto, facendo sospettare al governo che la Coca-Cola l’anno precedente avesse lucrato troppo sulle vendite, e quindi fu imposto per gli anni successivi un prezzo inferiore ai costi di produzione sostenuti.
Un altro argomento su cui il popolo musulmano è molto sensibile è quello dell’ambiente e della protezione della propria salute. Il Corano condanna fermamente il comportamento caratterizzato da sprechi e consumi inutili: ne consegue che il consumatore musulmano dovrebbe essere particolarmente reattivo a messaggi e appelli che sostengono un ambiente sicuro e più sano, sebbene molti paesi dell’islam non abbiano ancora adottato le medesime norme ambientali dei paesi occidentali più sviluppati. Nonostante ciò, questo è sicuramente un tema strategico su cui molte aziende possono puntare per comunicare i propri prodotti.

Le ferree regole del Corano hanno imposto a molte aziende europee e nord-americane di modificare i propri prodotti per poterli commercializzare nei paesi musulmani: le catene di fast food come McDonald’s o Burger King hanno dovuto modificare l’offerta delle proprie carni, macellandole secondo il rito musulmano, in base al precetto alimentare islamico halal. Alla fine degli anni ‘90 la celebre azienda di giocattoli Mattel aprì i suoi nuovi uffici a Dubai e fu colpita da una fatwa ordinata dall’Imam del Kuwait per l’effetto dannoso che la bambola Barbie poteva provocare alle menti e alla moralità delle bambine. La Mattel fu così costretta a modificare le caratteristiche fisiche e di abbigliamento della propria bambola.

Nonostante queste barriere ma, soprattutto, grazie all’adeguamento dei costumi da parte dei paesi più moderati, il mercato pubblicitario del Medio Oriente è in rapida crescita. Molte agenzie pubblicitarie per capire meglio e più da vicino le caratteristiche specifiche di questi mercati e delle loro dinamiche, stanno aprendo filiali nei paesi del Medio Oriente: pochi giorni fa, J. Walter Thompson, la quarta agenzia di advertising al mondo per grandezza, ha siglato un accordo con Altai Communications, un'agenzia pubblicitaria con sede a Kabul. Vuole essere la prima agenzia pubblicitaria multinazionale ad investire ed operare in Afghanistan.
La sfida principale per aziende e pubblicitari è quella di conoscere con precisione i target verso i quali i prodotti e la comunicazione sono diretti e identificare i loro valori di riferimento, tenendo sempre presente come la religione può influenzare le scelte, i comportamenti e il loro stile di vita. Grandi trasformazioni, ad esempio, interessano i gruppi di teen ager - da sempre quelli più sensibili e aperti ai cambiamenti che arrivano dall’occidente: in particolar modo nei paesi più integralisti, i nuovi comportamenti e gli stili di vita emergenti stanno lentamente mettendo in crisi la struttura conservatrice musulmana.

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