: articoli tratti da Il Foglio, GQ, LINK Magazine, Rolling Stone, AD, Vanity Fair e Style Magazine del Corriere della Sera.
La multinazionale NBA alla conquista della Cina. O viceversa?Il basket americano è rinato con una ricetta "Business e Hip-Hop". Ora si dà un codice d'eleganza e vuole espandersi.
IlFoglio - Martedi 8 NovembreFormidabili quegli anni! In Italia erano gli opulenti anni Ottanta: quelli di Gianni De Michelis presidente della lega basket, dei derby bolognesi e livornesi trasmessi in prime time dalla Rai, gli anni di Cantù e Pesaro province superstar, quelli del “SuperBasket” di Aldo Giordani e degli sponsor danarosi. Proprio allora iniziavano ad arrivare in tv le prime immagini delle partite NBA, il campionato professionistico di basket statunitense, gustosamente commentate da quel Dan Peterson che divenne poi allenatore del team milanese: il gancio cielo di Kareem Abdul Jabbar, la fredda precisione di Larry Bird, la straordinaria elevazione di Doctor J, per non parlare delle leggende metropolitane che facevano sognare tutti noi wannabe di provincia.
Poi le cose sono cambiate. Il basket in Italia ha tragicamente piegato il capo di fronte al dominio calcistico e, in mancanza di poteri forti e sponsor interessati, si è avviato verso un lento e inesorabile declino di pubblico e spettacolo che dura tuttora - e la recente rinascita di Armani Jeans Milano rappresenta una straordinaria eccezione che, ci auguriamo, serva da esempio ad altri imprenditori illuminati. La National Basketball Association, al contrario, è cresciuta ed è diventata una vera e propria macchina da guerra che tra percentuali degli incassi delle partite, sponsorizzazioni, royalties, media e soprattutto diritti televisivi, fattura annualmente 3 miliardi di dollari. Due uomini soprattutto hanno fatto sì che una semplice lega sportiva diventasse una delle multinazionali americane più solide nel campo dell’entertainment: il primo si chiama David Stern, commissioner dell’NBA, colui che da vent’anni controlla ogni minimo particolare del grande circo cestistico e che ha l’ultima parola sull’immagine di ogni singolo giocatore della lega, sulle loro regole di comportamento e sul prezzo dei biglietti.
L’altro è stato Michael “Air” Jordan, considerato all’unanimità il miglior giocatore nella storia del basket ma, soprattutto, il più grande talento commerciale nel mondo dello sport. Jordan ha prestato il suo nome e la sua immagine alla Nike come firma di una linea di scarpe e di abbigliamento, alla McDonald’s, alla Gatorade e addirittura alla Warner Bros come protagonista di un film (Space Jam) a fianco di molti personaggi dei cartoni animati Warner. Nella burrascosa carriera di Jordan, fatta di ritiri e ritorni forzati, il più delle volte le decisioni erano mosse da motivazioni di business piuttosto che da valutazioni agonistiche.
Nonostante i miliardi di dollari e gli interessi che girano attorno, l’NBA rimane ancora il campionato più bello del mondo dove spettacolo, intrattenimento e professionismo sono sempre garantiti. Sarà per la naturale ingenuità degli americani, sarà per gli altissimi ingaggi dei giocatori, ma raramente si sono verificati scandali nelle partite o sospetti di combine.
Non tutto però nella lega è andato sempre liscio: nella seconda metà degli anni Novanta anche la lega professionistica di basket ha vissuto un momento di crisi con i proprietari delle squadre ed i giocatori, che ha causato un clamoroso ritardo di tre mesi all’avvio del campionato e, alla fine, anche un calo degli ingaggi dei giocatori come voluto dai presidenti dei club.
A seguito di ciò, il campionato NBA ha subito un crollo di popolarità e d’immagine al punto tale da costringere David Stern ad aprire le porte al mondo dell’hip-hop, cultura e stile di vita cafone e di successo tra le nuove generazioni black (e non solo): Shaquille O’Neal e Allen Iverson iniziano ad incedere dischi, il rapper Jay-Z diventa co-proprietario dei New Jersey Nets, musica hip-hop diffusa a tutto volume durante il riscaldamento pre-partita e vengono anche messe in conto quelle due e tre risse “gang-ghetto style” (tra cui quella storica al Palace of Auburn Hills) tra i giocatori più irrequieti per rendere animato il campionato. Ma non tutto è stato controllato a dovere: a seguito di certi atteggiamenti scorretti e violenti da parte dei giocatori, importanti sponsor come la Dairy Food Association e la Nestlè hanno deciso di non essere più sponsor NBA e molte famiglie hanno iniziato a disertare le partite.
Poche settimane fa lo stesso Stern, alla vigilia del campionato 2005-2006, ha diramato un comunicato rivolto a tutti i club in cui parla di professionalità, immagine e rispetto verso i tifosi e si dichiara che, da ora in poi, la lega adotterà un «business casual dress code», ovvero un codice per l'abbigliamento da usare in tutte le situazioni di lavoro: conferenze stampa, viaggi, ma anche spot pubblicitari. Non più quindi bandane da gang, pantaloni oversize e catenoni al collo bensì giacche, maglioni e camicie, pena pesanti sanzioni. La notizia ha scatenato polemiche tra i giocatori e tra i fans americani ma che, francamente, poco interessano a Stern. Come ogni multinazionale che si rispetti l’obiettivo principale adesso è un altro e si chiama Cina. Da parecchi anni la politica della lega è stata quella dell’integrazione e della globalizzazione: oggi circa il 50% dei giocatori sono stranieri e il più in vista si chiama Yao Ming, 25 anni, 2,25 metri, ora nelle fila degli Houston Rockets. Da circa cinque anni, prima del campionato americano - che è iniziato il 2 Novembre - alcune squadre NBA (sia quelle più forti che le minori) si trasferiscono in Cina per un tour promozionale che riempie gli enormi palazzi dello sport di Beijing e Shanghai. Le potenzialità sono enormi: il basket sta diventando lo sport preferito tra i giovanissimi, si stima che in Cina 250-300 milioni di persone giocano a basket - circa come la popolazione degli USA - e per le olimpiadi del 2008 a Beijing potrebbero arrivare a 500 milioni. Questo in buona sostanza si può tradurre, entro breve, nel raddoppio del giro d’affari dell’NBA. Alla luce di tutto questo si capisce bene che a David Stern non gliene può importare di meno di un calo del 6% dei biglietti venduti negli Stati Uniti.